Vincent Askew arrivò a Bologna a Bologna nel gennaio 1989, a metà di quel campionato, per sostituire “Gino” Banks. Esordì a Livorno nella prima partita del girone di ritorno segnando subito 18 punti in 22 minuti di gioco. Disputò in tutto 20 partite in maglia Fortitudo, abbinata Arimo, segnando 380 punti (media 19,0 a partita), catturando 70 rimbalzi e recuperando 46 palloni. Il suo massimo stagionale lo raggiunse proprio nel derby del “Grande Freddo” quando segnò 28 punti. Aveva solo 22 anni, era alto 1.96, ma dotato di grande velocità e gambe esplosive. Giancarlo Sarti lo scovò nella CBA e Askew si dimostrò molto utile alla squadra, che raggiunse i playoff. Dopo l’esperienza bolognese ebbe altre due brevi apparizioni nel campionato italiano (ad Udine e Reggio Emilia, conclusesi in entrambi i casi con sue fughe in America a campionato in corso), ma soprattutto una lunga e proficua militanza in diverse squadre NBA, in particolare con Seattle, Indiana, Golden State e Portland. Dopo alcuni anni come allenatore, oggi porta avanti una scuola basket (Askew Hoops Academy) dove insegna i fondamentali del basket ai giovanissimi.
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In un’intervista per la Gazzetta dello Sport (marzo 1989) hai dichiarato che Artis Gilmore è sempre stato il tuo mito e che per te giocarci da compagni di squadra era quasi un sogno. È stato merito suo se, a 23 anni hai lasciato un futuro già scritto in CBA e poi in NBA, per venire in Italia?
Intanto grazie per aver deciso di iniziare questa rubrica proprio da me. Sì assolutamente, era un onore per me pensare di poter giocare insieme ad Artis Gilmore. Ero proprio estasiato. Sono venuto in Italia per la prima volta a 22 anni: ho sempre amato e ammirato Gilmore sin da quando ero piccolo.
Conoscevi la Fortitudo prima che ti arrivasse l’offerta dalla società? Cosa ti aspettavi da Bologna e dalla Fortitudo in generale?
No, non conoscevo affatto l’Italia, né tantomeno conoscevo la Fortitudo. Ero veramente giovane, non ero mai stato lontano da casa e il volo per Bologna è stato di fatto il mio primo vero viaggio. Oggi, a distanza di tanti anni, posso dire di amare Bologna, l’unica città in cui sono rimasto e dalla quale non sarei mai voluto andare via.
Si dice che una volta arrivato in aeroporto avessi con te solo una borsina di plastica e nessuna valigia. Cosa ti eri portato?
È vero. Ero giovane, non avevo nient’altro se non me stesso. Non sapevo cosa aspettarmi, ma ho recuperato nel viaggio di ritorno: mi sono riportato in America tante cose di Bologna.
Tutti quelli che giocano in Fortitudo dicono che il calore dei tifosi e l’amore della città verso la pallacanestro sono unici nel loro genere. Te che hai giocato per squadre storiche, come i Golden State Warriors, i Sacramento Kings, i Nets, gli Indiana Pacers e Portland, e in città che vivono davvero di pallacanestro, sei d’accordo con questa frase?
Assolutamente. Con la Fortitudo ho vissuto dei momenti indimenticabili. Si percepisce il calore e l’attaccamento della gente girando non solo per Bologna, ma anche per il resto dell’Italia. Ho amato giocare per questa città e tutt’ora amo la Fortitudo. Bologna è decisamente uno dei miei posti preferiti e mi piacerebbe poterci tornare un giorno.
MVP di uno dei derby che un tifoso Fortitudino non si scorderà mai, quello del “Grande Freddo”, con 28 punti a referto. Hai provato emozioni diverse rispetto alle altre partite giocate con la maglia della Fortitudo? Ti avevano spiegato l’importanza della partita, soprattutto per il popolo biancoblu?
“Ah sì, la partita contro l’altra squadra di Bologna” (cit.) Mi avevano spiegato di che tipo di partita si trattasse e quanto fosse importante per tutti i tifosi. Ero veramente carico e voglioso di fare bene. Ho segnato 28 punti e abbiamo vinto: è stata veramente una grande soddisfazione.
Chi era il tuo compagno di stanza? Ti ricordi un aneddoto divertente avvenuto in spogliatoio?
Non avevo un compagno di stanza perché mi avevano assegnato una camera singola. Ho tanti ricordi divertenti di cose successe in spogliatoio. C’era un ragazzo che cercava di insegnarmi l’italiano e ovviamente mi insegnava prima di tutto le parolacce. Poi mi ricordo di essere uscito con una ragazza italiana e mi avevano detto di dirle “tiomidoticore”, credo voglia dire “ti voglio bene, cuore dolce”, credo…
Il popolo biancoblù ti ha mai dedicato un coro? Saresti in grado di riproporcelo?
Bella domanda, mi ricordo che me ne avessero dedicato uno, ma non mi viene in mente. Cantavano sempre un coro dedicato a me per il mio nome, “Vincenzo”, e loro mi chiamavano sempre “Vincenzino”.
“Vincent Askew: il fuggiasco”. Hai sempre dichiarato di amare l’Italia, anche a distanza di anni, ma, fatta eccezione per l’esperienza con la Fortitudo, hai la fama di essere quello che “fuggiva” di punto in bianco viste le esperienze con Udine prima e Reggio Emilia dopo. Quali erano i motivi di queste fughe improvvise?
Ho sempre amato l’Italia e tuttora le sono molto affezionato. Quando ero a Udine, ero sposato, avevo problemi con il matrimonio e mia moglie voleva andarsene. Per questo motivo non sono rimasto, ma so che non sarei dovuto andarmene. Quando ero a Reggio Emilia, invece, non sarei dovuto andare via, mi trovavo bene, ma ho fatto una scelta sbagliata. Per quanto riguarda Bologna, invece, l’ho sempre amata, e non solo per il calore dei tifosi… Non ci avrei mai scommesso perché ero abituato a grandi città.
Hai dei ricordi legati a coach Di Vincenzo?
Il coach era veramente tosto, ma l’ho adorato. Mi spronava, mi faceva faticare e soprattutto mi ha insegnato a lavorare sodo. Mi sono trovato veramente bene con lui.
Qual è il tuo piatto bolognese preferito?
Difficile questa, ho tanti piatti preferiti. Amo i tortellini e… Come si chiamano pure? Li mangiavo sempre. Ah sì, gli spaghetti, il ragù. Amo tutta la cucina italiana a dire il vero.